Luce e forza! Questi i doni che chiedo, tutti i giorni, al Signore in questo momento. Per me, vescovo e per tutta la diocesi. Perché sento che di questo abbiamo tutti grande bisogno. Luce per intravedere; forza per compiere ciò che abbiamo veduto.
Ecco perché ho gioito nel vedere che le Scuole e le Chiese, riaperte, funzionano. Difese con le unghie, reggono alla sfida. Tutto sta proprio qui. Perché se regge la cultura e la preghiera, regge la speranza, tiene la progettazione di un mondo futuro, il lavoro trova risposte e finalità. Ed ecco perché abbiamo sorriso di ironia, nel vedere che certi Governatori in alcune regioni non hanno capito la sfida. E lasciano che i propri ragazzi, invece di poter andare a scuola (come è loro diritto!), invogliati di fatto, vadano nei centri commerciali.
Perciò impariamo ad amare la storia, sempre ricca di grazia e di luce. Come in quella splendida serata in cui la senatrice Segre, fatta cuore di tutti, ha narrato con precisione inaspettata, a ben novant’anni, il dramma della Shoa. Quella voce increspata di commozione ci ha coinvolto. Perché è sempre più vero che i potenti, vuoti, vogliono che i giovani disprezzino la storia, che rifiutino la ricchezza spirituale e umana che è stata tramandata attraverso le generazioni, che ignorano tutto ciò che li ha preceduti (C.V. 181). E’ il perenne insegnamento di papa Francesco, che ancor una volta nella sua recentissima Fratelli tutti ci esorta a non dimenticare, coltivando una memoria riconciliatrice e vitale: “La Shoah non va dimenticata. È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa.1 Nel ricordarla, non posso fare a meno di ripetere questa preghiera: «Ricordati di noi nella tua misericordia. Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita. Mai più, Signore, mai più!». Come non vanno dimenticati i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki!”. (247).
Certo, il tempo che viviamo è carico di tanta tristezza, personale e sociale. Il futuro ci è incerto. Fragile, come il nostro respiro. Eppure, proprio in questo “deserto” che stiamo vivendo, raccogliamo l’esortazione del mese di ottobre 2012, lanciata da papa Benedetto, sulla scia di quello ancor più efficace di papa Giovanni, esattamente 50 anni prima, l’11 di ottobre 1962. Aprendo il concilio, il papa Buono aveva infatti detto, con profetica determinazione: “A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo. Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa».
Gli ha fatto eco, 50 anni dopo, l’acutezza di papa Benedetto, rilevando che stiamo attraversando un vero deserto, ma sempre occasione di nuove scoperte spirituali: “Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto, che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi, uomini e donne. Nel deserto si torna a scoprire il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la Terra promessa e così tengono viva la speranza». In ogni caso, in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza! (E.G. 86)
Si tratta, però, non di vedere. Troppo poco. Ne sono capaci tutti. Ma di intravedere, che è il verbo della fede. Quella fede che ti fa intravedere il vino nuovo e che non si scoraggia se il grano cresce tra una rigogliosa zizzania. Sa intravedere il raccolto, anche su rami che si stanno, in ottobre, spogliando di foglie, nella rinascita di nuovi germogli!
Ed anche con questo nostro numero di ottobre (per il quale ringrazio tutti i redattori, articolisti e collaboratori oltre che il tipografo!) noi ci auguriamo di essere per il nostro tempo delle “persone- anfora!”. Conosciamo la grande sete che avvolge il nostro tempo. Ma proprio per questo non ci scoraggiamo. Non chiudiamo il cartaceo. E non cessiamo di raccogliere la voce dei nostri ragazzi della scuola Agraria, mentre descrivono il loro lavoro di piccoli contadini, che scelgono per vocazione di stare nelle stalle oltre che nelle biblioteche. Entrambe sante, entrambe profumate di speranza!
Ecco, perché ho molto apprezzato l’occasione di poter finalmente ritornare alla traduzione vera di un’espressione intensa del Padre Nostro! Con il nuovo messale, infatti, non diremo più: non ci indurre in tentazione! Ma potremo finalmente pregare nel senso, forse più autentico, dell’espressione di Gesù: non abbandonarci alla tentazione!. Come annoto in un articolo specifico sul Nuovo Messale, quel verbo, abbandonare, è un grido, che sa di cuore, che respira la casa, che raccoglie le lacrime di noi, figli di un Padre che non ci potrà mai abbandonare. Mai!