Che cos’è «l’inquietudine della fratellanza»? Che rapporto c’è fra una tale inquietudine e il concetto di «diplomazia preventiva»? E come possiamo leggere l’ultima missione di Papa Francesco in Iraq?
Per dirla con le parole di un ambasciatore, non credente, che lo conosce benissimo e che lo ammira, una caratteristica di Papa Francesco è la forza della pazienza. «L’unica cosa radicale deve essere la pazienza stessa», mi spiega il diplomatico nel corso di una nostra conversazione conviviale. Esatto, perché «per le cose importanti ci vuole tempo».
La visita del Papa in Iraq, in quella terra di Abramo dove è iniziato tutto per le tre grandi religioni monoteistiche, è l’evento che corona questa forza della pazienza, e la consacra come linea guida delle relazioni internazionali del ventunesimo secolo. Sembra ieri che quelle terre erano infestate dal califfato dell’ISIS. Risuonano ancora nell’aria le parole di quanti in Occidente sussurravano della necessità di un “dialogo” con il Califfato. E invece è accaduto l’insperabile.
Non ci intratterremo sui significati pastorali e spirituali dell’importante visita di Papa Bergoglio in Iraq. Essi sono stati illustrati a dovere sui mass-media. Ci sembra invece il caso di soffermarci sul senso dell’evento in un contesto, per così dire, “politologico”.
La prima cosa da notare è che la visita del Papa nella terra di Abramo si colloca in linea retta con la Dichiarazione sulla fratellanza universale di due anni fa. Se ciò è ovvio proprio per la dimensione evocata dall’aggettivo “universale”, è interessante notare a quale latitudine il papa intende realizzare una fratellanza autentica fra i popoli: l’Iraq, la terra delle tre religioni monoteistiche, visitata per la prima volta da un Papa.
L’incontro con il Grande ayatollah Sayyid Ali al-Husaymi al-Sistani, la cui autorevolezza è unanimemente riconosciuta nel mondo sciita, è una delle grandi svolte impresse nell’attuazione della Dichiarazione di Abu-Dhabi del febbraio 2019. Ne sono prova le parole dell’altro protagonista di quella dichiarazione, il Grande Imam della Moschea di al-Azhar, al-Tayyeb: «La storica e coraggiosa visita di mio fratello [Francesco] in Iraq invia un messaggio di pace, solidarietà e sostegno a tutto il popolo iracheno. Prego l’Onnipotente Allah che gli conceda il successo e che il suo viaggio raggiunga il risultato desiderato per continuare sulla via della fratellanza umana».
Nelle relazioni internazionali c’è sempre un «e dopo?». E dopo che succede?
E’ un caso che i media iraniani abbiano rilanciato insistentemente ogni notizia della visita papale? E’ un caso che al ministero degli esteri di Teheran un think-tank si sia messo al lavoro per valutare attentamente la portata della visita, che comunque viene definita «molto positiva e molto importante» dal capo ufficio stampa del ministero degli affari Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh?
E dopo? Dopo ci si ritroverà sicuramente in Vaticano. La dichiarazione sulla fratellanza universale è un documento ai cui principi stanno aderendo sempre più Paesi e Istituzioni, pubbliche e private. Non è difficile ipotizzare che tutti questi enti, riuniti intorno ai grandi protagonisti del 2019, Papa Francesco e l’Imam al-Tayeeb, si ritroveranno prima o poi nella prima conferenza internazionale sulla fratellanza universale, che potrebbe essere convocata proprio sotto gli auspici della Santa Sede.
La lettura che un “addetto ai lavori” potrebbe dare di questa prospettiva epocale è solo una: le religioni sono lo strumento politico per eccellenza al servizio della pace. Ad esse si sta sempre più riconoscendo una collocazione e un’importanza nella politica internazionale. Sembrerà una banalità ma, dall’Illuminismo in poi, alla religione è stato sempre precluso un ruolo in temporalibus, ossia di aver voce in capitolo nelle questioni secolari, e quindi politiche, come soggetti di diritto pubblico. Ciò ha portato anche a una distorsione nella visuale: si è scambiata per giusta laicità dello Stato una “confessione” che ha fatto, a sua volta, della laicità la sua religione.
Ora, è chiaro che in Occidente la tutela dei valori laici di uno Stato è un sacro dovere costituzionale. Ma il punto non è certamente questo. Il punto è che la continuità fra la Carta di Abu Dhabi e la visita di Papa Francesco in terra di Abramo fa emergere un quesito: sono importanti le religioni per la pace fra i popoli? Ma se i leader religiosi, invece di restare nelle retrovie, s’incontrano e dialogano per il bene comune, e se ciò ha un effetto moltiplicatore sulla stabilità delle relazioni internazionali, con il coinvolgimento di governi e istituzioni internazionali; ebbene, se tutto ciò accade, dobbiamo concludere che le religioni sono un fenomeno politologico d’immensa portata per il ventunesimo secolo; suscettibile di effetti duraturi che talvolta non si possono produrre con il solo strumento della politica.
Su un altro elemento vorremmo attirare l’attenzione, sottolineando l’importanza dell’itinerario di pace su cui si è incamminato Papa Francesco. La via tracciata ad Abu Dhabi e ora nella terra di Abramo è anche un’agenda per il consolidamento di principi e di diritti giuridici, che sono sì sanciti da tante carte fondamentali e da varie dichiarazioni e trattati, ma che pure sono caduti o sono in via di cadere in desuetudine.
Prendiamo per esempio il diritto alla cittadinanza. Lo ha scritto il Cardinale Miguel Á. Ayuso Guixot, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, presente allo storico incontro tra il Papa e l’Imam Sistani: «Siamo consapevoli della necessità di passare dalla mera tolleranza alla convivenza fraterna che richiede il pieno riconoscimento della cittadinanza. La piena cittadinanza è un elemento fondamentale per preservare l’identità. È necessario dunque lavorare con rispetto e amicizia per il bene comune, al di là delle differenze religiose e delle questioni di maggioranza e minoranza»
La futura assise interreligiosa svilupperà dunque la fratellanza universale concentrandosi sul diritto alla cittadinanza come uno dei più importanti temi in agenda. Nel mondo il diritto della cittadinanza è un “già e non ancora”. Se ne riconosce la titolarità ma la si condiziona a disparate esigenze degli Stati sovrani o, peggio, all’«ermeneutica» della maggioranza di turno.
Un secondo tema suscettibile di sviluppo potrebbe essere lo studio degli strumenti per attuare un autentico pluralismo. “Pluralismo” non è semplicemente il dar voce a opinioni politiche diverse; è il dar voce anche a chi non ha voce, a chi non ha spazio né autorità per far sentire la propria opinione. Ciò naturalmente chiama in causa anche il rapporto che i Paesi hanno con le rispettive minoranze sul loro territorio. Ma, a ben vedere, in ultima analisi sono sempre chiamati in causa i diritti umani. Ed è in favore del loro sviluppo che le religioni dovrebbero farsi ideale “lobby” presso i molti Paesi e le società in cui si trovano a operare.
Nessun male è per sempre. Ma anche il male è reversibile. I recenti attacchi di affiliati allo Stato islamico dimostrano che l’ISIS è ancora una minaccia; così come lo è il terrorismo internazionale, come mostrano i recenti attacchi di militanti sunniti a Baghdad.
Ciò rende questo nuovo cammino di Francesco impegnativo e non senza ostacoli. Per esempio, il Papa aveva sperato d’incontrare anche gli ebrei nel suo pellegrinaggio in Ur dei Caldei, terra che accomuna ebrei, cristiani e musulmani. «Ma una delegazione ufficiale di ebrei non è stata in grado di partecipare all’evento», ha scritto il “Jerusalem Post”.
Ostacoli politici frapposti dal governo iracheno, probabilmente. Il che spiega come l’unione d’intenti per la pace delle tre grandi religioni monoteiste sia la risposta a quella domanda sul “dopo” che arriverà; e che già da ora ci riguarda tutti.
Matteo Luigi Napolitano