«Ora trentacinquenne, la regina Elisabetta II è salita al trono dopo la morte di suo padre, Re Giorgio VI, nel 1952, e un anno dopo, nel giugno del 1953, è stata incoronata nell’Abbazia di Westminster. Attraente e intelligente, la Regina ha preso seriamente i suoi compiti sin da quando divenne erede al trono all’età di dieci anni. La sua formazione stata al contempo ampia e austera ed ella ha piena contezza delle responsabilità che deve fronteggiare poiché, sebbene i poteri della corona siano limitati, i doveri del monarca sono illimitati. Come capo dei governi e dei parlamenti del Commonwealth (tranne le repubbliche di India, Pakistan e la monarchia della Federazione della Malaysia), ella ha il compito di chiedere grande sensibilità e resistenza. Chiaramente lei considera i viaggi come il metodo migliore per regnare, e a partire dal momento in cui è diventata Regina ha visitato molte parti del Commonwealth, e reso anche alcune visite in Paesi europei. Quest’anno ha visitato l’India, il Pakistan, il Nepal e l’Iran, nel periodo gennaio-marzo. In maggio ha visitato l’Italia e in quell’occasione ha reso visita a Papa Giovanni XXIII. Ha visitato per la prima volta gli Stati Uniti mentre era ancora la Principessa Elisabetta, e vi è tornata in visita di Stato nell’ottobre del 1957»
Questo è un profilo preparato nel maggio del 1961 per il Presidente John Fitzgerald Kennedy dagli analisti della Casa Bianca; esso è conservato fra le carte di “JFK”. Questo promemoria già delimita i caratteri di colei che, all’epoca, era diventata Regina d’Inghilterra meno di dieci anni prima. «Formazione ampia e austera», ricordano i consiglieri di Kennedy, motivata da un cumulo di «doveri illimitati» a fronte di una monarchia senza poteri.
La Regina Elisabetta, da poco scomparsa, ha ben saputo interpretare il suo ruolo entro quest’arco di valori, tra illimitati doveri e compiti da adempiere; senza che in cambio vi fossero prerogative che la Corona potesse far valere su Parlamento e Governo.
Ma anche così, ha giustamente sottolineato la storica Laura Clancy, l’incoronazione di Elisabetta II è diventata narrazione mediatica, avendo coinciso con l’avvento della televisione come mezzo per la formazione di una cultura popolare.
Non che la TV non avesse dato problemi a Palazzo Reale. I consiglieri della Regina e non pochi nel Governo britannico nutrivano forti riserve verso la programmata “diretta televisiva” dell’incoronazione. Sarebbe stato come demolire un mito e violare le arcane leggi che guidavano i riti della Monarchia.
La TV fu quindi spartiacque tra un mondo e un altro. Molti sostengono che quella diretta televisiva in fondo rese i sudditi di Sua Maestà più partecipi dei fatti di Buckingham Palace, e più vicini alla monarchia. Per quanto a volte restasse il dubbio che le arcane liturgie dell’incoronazione, ora teletrasmesse, restassero incomprensibili.
La monarchia britannica, in fondo, aveva origini medievali; e ciò si è visto proprio sotto il Regno di Elisabetta: i titoli e i doveri militari dei Principi di Galles; le formule rituali valide per chiunque fosse introdotto presso Sua Maestà; e il dovere di prestare servizio militare attivo, discendente in capo ai membri di Casa Reale.
Elisabetta, pur restando nei suoi ranghi, ha sempre ben saputo come funzionava la Nazione, e quali fossero le prerogative governative inviolabili dalla Monarchia. Si prenda il caso del telegramma del presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS, Kliment Voroscilov, inviato direttamente alla Regina Elisabetta. Qual era il punto? Nel 1956 il Governo britannico aveva ufficialmente e decisamente condannato l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Ma Mosca stava tentando di aggirare l’ostacolo, avvicinando direttamente la Regina per chiedere la sua opinione; sperando che Elisabetta esprimesse una posizione magari più neutra, se non contraria a quella del Governo di Londra.
Dal punto di vista protocollare e costituzionale, la lettera di Voroscilov violava quindi tutte le regole costituzionali britanniche. La lettera giacque per due giorni sui tavoli di Buckingham Palace e di Downing Street; fino a quando non fu chiesto a Mosca di ritirarla, essendo mossa inopportuna e poco avveduta. Non è questo che un esempio d’interferenza della Russia negli affari interni di una grande Potenza. Avrebbe mai potuto Elisabetta esprimere una posizione contraria a quella del suo governo, per giunta in piena Guerra fredda?
Per la Corona britannica il rispetto delle forme equivale sempre al rispetto della sostanza. Esempio eclatante sono i piani per l’annuncio della morte della Regina da inviare ai Paesi del Commonwealth. Uno si aspetterebbe che questi piani siano più o meno recenti. Invece essi si susseguirono per un quindicennio: dall’avvento di Elisabetta nel 1952 a tutto il 1967. Perché? Perché in quel periodo il Commonwealth stava cambiando fisionomia, col mutare delle relazioni tra i Paesi in via di decolonizzazione e la Corona britannica. Occorreva dunque adattarsi alle nuove situazioni; e ciò significava per i Paesi di nuova indipendenza la perdita di una “identità britannica” a favore delle identità locali. Che la Corona abbia qui mostrato una flessibilità a tutta prova è innegabile. Ecco, dunque, l’importanza di far coincidere forma e sostanza: il cambiamento del Commonwealth implicava il cambiamento dei rapporti tra queste nazioni e la Corona.
Questa è l’eredità materna per Carlo III all’inizio del suo regno. Un lascito pesante, certo, ma che ha significato un’educazione politica a tutto tondo per rendere il simbolo della nazione britannica, la Corona, sinonimo di unità e di compattezza, specialmente in questi tormentosi tempi di guerra e di separazione del Regno Unito dal cammino europeo. Può sembrare poco, tutto ciò. Ma la longevità elisabettiana, fino a poche settimane fa, è stata sinonimo di saldezza nel maggior equilibrio possibile. E tanto basta.
Matteo Luigi Napolitano