Tanti giovani non conoscono la figura del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il suo assassinio il 3 settembre 1982 (morirono con lui la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo) diede inizio a una serie di attentati che negli anni a venire provocarono in Sicilia una vera e propria mattanza. Con la sua morte cominciò anche la “vera” lotta alla mafia che toccò il suo culmine con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questo periodo cruento della storia d’Italia deve essere l’occasione per riaffermare ancora una volta e con convinzione la supremazia dei valori di legalità e onestà su quelli della mafia e della mafiosità. Su questo assassinio ci sono ancora molti punti oscuri. Dopo quarant’anni forse dovrebbe essere arrivato il momento di dire che Dalla Chiesa fu assassinato dai tanti criminali e corrotti che avevano l’interesse, a Roma come a Palermo, di vederlo morto. Simona Dalla Chiesa mi raccontò la figura di un padre premuroso, che amava giocare con i propri figli, senza portare a casa le tensioni del lavoro. Ha tutelato la sua famiglia, facendosi vedere sempre con un volto sorridente e sereno. Aveva un forte senso delle regole.
Quando parliamo di legalità, dobbiamo riferirci anche ai codici morali, quelli cioè della coscienza individuale, mentre compete alla magistratura far rispettare le norme giuridiche. Rispettare le regole vuol dire essere liberi e la libertà si traduce nel rispetto degli altri. Nessuno ha la libertà assoluta, altrimenti si genererebbe il disordine. I cittadini devono misurare le proprie esigenze con quelle degli altri e quest’aspetto non deve essere visto come un sacrificio ma come solidarietà tra esseri umani. L’insieme dei cittadini liberi è la base della convivenza civile, che da sola abbatte tutti i tentativi di sopraffazione mafiosa.
Quelli della mia età ricorderanno quando Enzo Biagi chiese al Generale come avrebbe raccontato la sua vita ai nipoti. Lui sornione rispose che ai nipoti si raccontavano le favole e la sua vita non lo era stata. La sua storia l’avrebbe raccontata ai giovani carabinieri, che sul territorio nazionale si battevano per il rispetto delle leggi e per la difesa dei cittadini. Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa non si è mai piegato ai poteri forti e ai prepotenti. Fu mandato in Sicilia per combattere la mafia. Arrivato a Palermo, fu il primo Prefetto che scelse come suoi interlocutori gli studenti. Non ebbe il tempo di coltivare questo magnifico rapporto con i più giovani. Fu ucciso troppo presto. Il tempo, però, che gli fu sufficiente per seminare. Per la prima volta, infatti, gli studenti iniziarono a ribellarsi, organizzando fiaccolate in sua memoria e in favore della legalità, gemellandosi con gli istituti scolastici di tutta l’Italia. Il messaggio di Dalla Chiesa è quello della speranza nonostante ci sia ancora tanto marcio nella politica e nell’economia del nostro Paese. Se, però, penso al silenzio di trenta anni fa e al fatto di parlare di un argomento così delicato con gli studenti, mi preoccupo e per molti aspetti mi sento di dire che stiamo facendo passi all’indietro nel parlare di questi argomenti. Conoscere e informarsi sono le prime tappe per il cammino verso la legalità e contro tutte le mafie. La cultura consente di non piegarsi a nessuno e agire sempre nel rispetto delle regole. Il Generale Dalla Chiesa ha combattuto a viso aperto il terrorismo degli anni ’70, in un momento in cui nessuno più credeva di poterci riuscire.
La mafia, però, fu diversa perché aveva complicità di un vasto consenso, concedendo favori, dando voti e assicurando carriere facili. Finché una tessera di partito conterà più dello Stato, non riusciremo mai a battere la mafia: questa è una delle frasi rimaste celebri del Generale Dalla Chiesa. È un pensiero bellissimo perché stimola i più giovani a ripulire il mondo della politica dalla corruzione imperante. “Certe cose non si fanno per coraggio – questo amava ripetere il Generale – ma per poter guardare negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli”. Questo è stato uno dei più grandi insegnamenti che ci ha tramandato. Occorre camminare sempre a testa alta contro chi vuole imporre le proprie regole criminali.
Siamo noi cittadini i primi ad avere le armi per combattere gli atteggiamenti mafiosi, opponendoci alla corruzione e al clientelismo. Un ruolo importante, inoltre, deve garantirlo lo Stato, che ha l’obbligo di garantire alla collettività tutti quei diritti che la mafia concede con facilità a chi ad essa si avvicina. Il suo ricordo, e di quanti hanno sacrificato la propria vita per la lotta alle mafie, spero costituirà un esempio per le future generazioni. Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.
Vincenzo Musacchio