Sei comunità agricole sulla catena dell’Himalaya, tra Cina e Pakistan, da tempo si stanno adattando ai cambiamenti climatici previsti per il 2030, 2050 e 2100. Non è che un esempio dei concetti di resilienza e di flessibilità applicati all’ecologia, all’economia e alle scienze gestionali; concetti adattati ai sistemi agricoli più diffusi nel continente asiatico. Sull’Himalaya, quindi, gli agricoltori sembrerebbero meglio preparati a reggere l’urto dei cambiamenti climatici e di altri imprevisti potenzialmente dannosi per le loro comunità.
Hanno più di una ragione per prepararsi. Recenti studi sui cambiamenti climatici hanno dato l’ennesimo allarme: i cambiamenti ormai minacciano la vita umana e possono sconvolgere le nostre abitudini e le nostre società.
Ciò detto, quanto è difficile concludere grandi e stabili accordi internazionali stabili? Il Protocollo di Kyoto non ha risolto le questioni basilari, nonostante l’entusiasmo degli ambientalisti. Tante sono le questioni ancora controverse. Crescita economica e lotta ai cambiamenti climatici sembrano essere poli opposti, scelte alternative. Si pensi alla difficile dialettica tra Stati Uniti, Unione Europea e Cina proprio in merito all’applicazione del Protocollo di Kyoto. Tutto ciò porta a interrogarci sull’effettivo consenso che riscuote oggi la lotta al cambiamento climatico. Anche perché i costi dello stesso (reali, politici ed etici) vengono considerati da prospettive molto diverse, a seconda della latitudine da cui li si guardi. Se è chiaro che le prospettive dei Paesi africani sono diverse da quelle cinesi e da quelle americane, la difficoltà di un nuovo accordo globale appare in tutta la sua evidenza.
Per comprendere la portata dei cambiamenti climatici bisogna anche porre molta attenzione alle disuguaglianze sanitarie; e vedere se il cambiamento climatico aggravi tali disuguaglianze. Il consumismo e le logiche di mercato hanno effetto sul consumo di beni ambientali, aumentando le disuguaglianze al deteriorarsi dell’ambiente. Quali speranze una tale situazione di tal genere può dare per il futuro? La risposta non è univoca.
L’Oxford Handbook of Climate Change and Society è un ottimo strumento per capire come i cambiamenti climatici influiscano sui sistemi e sulle società umane. Occorre dunque l’apporto di molte discipline, specialmente umanistiche, dato che la scienza del clima in sé e per sé spesso non viene accettata da individui e gruppi d’interesse, convinti del fatto che lo sviluppo delle loro comunità significa rinunciare al benessere climatico. Ecco perché l’attuale critica situazione determinata dai mutamenti climatici impone delle risposte: dalla scienza ma anche dalle discipline che si occupano di sicurezza umana e soprattutto di quella giustizia sociale che intende non solo correggere gli squilibri ma anche a tutelare le generazioni future.
La Convenzione-quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici (UNFCCC), è il documento di riferimento sul tema di nostro interesse. Essa invita i Paesi aderenti «ad agire per preservare la sicurezza umana laddove i rischi sono elevati, anche a fronte dell’incertezza scientifica». Ma la Convenzione non si propone affatto di invertire il ciclo dell’«effetto serra» quanto lo scopo di fissare livelli stabili e accettabili di concentrazioni di gas serra nell’atmosfera, limitando i danni per l’uomo. A tal fine, com’è noto, la Convenzione ha istituito appositi organi come la Conferenza delle Parti (COP) che promuove l’applicazione della Convenzione.
«I cambiamenti climatici sono indifferenti alle visioni politiche e ai nazionalismi – ha dichiarato di recente Jeremy Rifkin, professore alla Wharton School of Economics e autore del libro L’età della Resilienza. Ripensare l’esistenza su una Terra che si rinaturalizza”. – Ecco perché occorre spazzare via il pensiero che la Terra sia fatta per l’uomo (il che ci porta verso l’estinzione) per andare verso un pensiero molto più complesso, interdisciplinare, adattivo, ecologico, resiliente. Nel corso della nostra storia, la specie umana è sopravvissuta a cambiamenti climatici estremi, perché siamo la specie più capace di adattamento. Abbiamo una chance, se sapremo cambiare il nostro modo di pensare».
C’è poi da valutare esattamente il rapporto tra i cambiamenti climatici e l’aumento demografico nei Paesi in via di sviluppo. Il governo egiziano, che ha ospitato a Sharm el-Sheikh la recente Conferenza COP27, ha sottolineato che l’aumento delle temperature costituisce una minaccia per le sue riserve alimentari e idriche; e si è impegnato a sostenere le preoccupazioni di molti Paesi africani, per i quali «la rapida crescita della popolazione può aumentare la vulnerabilità dei Paesi ai cambiamenti climatici». Questione molto importante, questa, rilevata ampiamente in un recente articolo del Washington Post: «L’Africa è già gravemente colpita dai cambiamenti climatici, nonostante sia responsabile solo del 3% circa delle emissioni globali di CO2».
«Difficilmente la COP27 passerà alla storia. – ha commentato Il Foglio alla chiusura della Conferenza del Cairo – . Significa che è un fallimento? Non necessariamente. […] Le bozze circolate nei giorni scorsi hanno indotto le maggiori organizzazioni ambientaliste a denunciare l’ “inazionismo” dei governi, in particolare quelli occidentali». In effetti i problemi restano sostanzialmente due: «La costituzione di un fondo per compensare i paesi maggiormente colpiti dal cambiamento climatico; e la condanna definitiva dei combustibili fossili».
Sulla soluzione a questi problemi si dovrà, temiamo, lavorare ancora moltissimo.
Matteo Luigi Napolitano