Il 9 maggio del 1978 l’assassinio del carissimo e amatissimo Aldo Moro, sgozzato come un agnello sacrificale, fu consentito a una banda di vigliacchi da chi si illuse così di difendere le istituzioni dal ricatto dei terroristi. Non si capì, o non si volle capire, che il rifiuto di una seria trattativa forniva loro le armi per la feroce violenza di cui avevano già dato prova con l’uccisione spietata della scorta. Naturalmente, quando non ebbero altri argomenti, poggiarono la loro “intransigenza” sulla insinuazione che gli appelli di Moro non fossero affidabili. Anche il più sprovveduto avrebbe intuito che lo stile e la qualità degli scritti dalla prigione, puntualmente recapitati ai familiari, non potevano in nessun modo rimandare all’intervento di giovinastri cresciuti nel mito della rivoluzione senza leggere un libro. Era per questo evidente che si usavano senza filtri le parole del prigioniero per convincere all’accoglimento delle richieste. Ma chi si permetteva nell’altro campo di andare incontro alle proposte rappresentate dalle disperate raccomandazioni di Moro veniva accusato con le stesse procedure adottate in altri contesti oggi contro chi si oppone al “verbo” comune. Un papa, due partiti autorevoli, spiriti indipendenti non accecati da un manicheo e malinteso senso dello Stato, non poterono nulla in quel clima di follia, nonostante i loro ripetuti tentativi, unici a rianimare i congiunti della vittima. Del resto la stessa lettura e rilettura degli scritti dalla prigione, intesi a replicare di volta in volta ai tentennamenti dei vari partiti, con puntuali riferimenti alle responsabilità di ciascuno dei protagonisti che sembravano abbandonarlo al suo destino, diretti comunque a giustificare e mettere in pratica in qualsiasi modo le basi della trattativa, sono lì come macigni sulla coscienza di chi con il rifiuto ha confermato il sospetto. E le ultime lettere, gli appelli disperati e le finali disposizioni per la famiglia, ricordano per sempre l’errore incredibile e disumano che è stato commesso a danno di un uomo prezioso, docente stimatissimo e statista illuminato. Ricordo tutto questo a beneficio di quanti sono più giovani, non erano ancora nati o non hanno vissuto quei momenti in un’età consapevole delle mille sfumature che oggi si perdono. Soprattutto perché non si può sopportare che qualcuno della mia situazione anagrafica, ma allora perfettamente inserito nel contesto dei tenaci difensori dello Stato contro la vittima, tenti ora di riesumare Licio Gelli, P2 e persino Cossiga in una subdola allusione ai mandanti. E’ solo il frutto della cattiva coscienza di giornalisti come quello che ho ascoltato pochi giorni fa in un programma televisivo sul nostro passato e sul nostro presente, purtroppo seguito più di quanto meritino ricostruzioni strumentali e per questo false o fuorvianti della nostra storia. Il tragico destino di grandi uomini come Aldo Moro, che non possono più parlare, è che oggi la loro memoria sia schiacciata in una superficiale e, come abbiamo detto, mistificante e ingannevole catena di dichiarazioni mediatiche non corrispondenti alla realtà dei fatti. Resti a suo conforto la parola di chi a quel tempo aveva poco più di trent’anni e ha trepidato “in diretta” nella speranza che le ragioni dell’uomo innocente e meritevole prevalessero su quelle dello Stato, unico principio costituzionale dimenticato nei momenti più bui del nostro paese. Insegnavo letteratura e storia in un istituto superiore di Campobasso. Ricordo che alla notizia del rapimento puntualmente e immediatamente un collega iscritto al PCI gridò alla responsabilità degli stati Uniti. Aveva torto naturalmente. E allo stesso modo, quando ormai era chiaro che si trattava di terroristi, i cosiddetti compagni che sbagliavano, si schierò con moliti contro qualsiasi ipotesi di trattativa, destituendo di fondamento ogni scritto di Moro, quando non lo usava, il mio collega, contro questo o quell’esponente della Democrazia Cristiana. Faccio formale richiesta che una copia del nostro numero di Maggio sia spedita a chi piange il parente tradito cercando una nota di verità che lo conforti fra migliaia di parole di un’informazione ingessata e fondamentalmente irrispettosa.
Roberto Sacchetti