Non è bene che l’uomo sia solo. Curare il malato curando le relazioni.
Mai soli nel tempo della malattia. Ci fa bene ascoltare quella parola biblica. Dio la pronuncia agli inizi della creazione e così ci svela Il senso profondo del suo progetto per l’umanità ma al tempo stesso la ferita mortale del peccato, che si introduce generando sospetti, fratture, divisioni e perciò isolamento. Esso colpisce la persona in tutte le relazioni con Dio, con se stesso, con l’altro, col creato.
Tale isolamento ci fa perdere il significato dell’esistenza, ci toglie la gioia dell’amore, e ci fa sperimentare un oppressivo senso di solitudine in tutti i passaggi cruciali della vita. Fratelli e sorelle, la prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza, piena di compassione e di tenerezza.
Per questo prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri, i familiari, gli amici. Operatori sanitari, con il creato, con se stessi. È possibile? Sì, è possibile e noi tutti siamo chiamati a impegnarci perché ciò accada.
Guardiamo all’icona del buon samaritano (Luca 10, 25. 37). Alla sua capacità di rallentare il passo e di farsi prossimo, alla tenerezza con cui lenisce le ferite del fratello che soffre. C’è bisogno di uno sguardo ricco di vita, pensiamo a tutte quelle persone che giornalmente testimoniano la vita con la malattia. In questi tempi si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano, che deve essere il punto di partenza per permettere a tutti di non soffrire. E deve essere una posizione Laica. Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno.
Ma è necessario fare in modo che le persone ne siano a conoscenza, e che la classe medica li aiuti nel modo più corretto possibile. I medici dovrebbero pensare che sono cittadini al servizio di altri cittadini. Dovrebbero garantire che le richieste di cura e le scelte di valore sui pazienti siano accolte, nel continuo sforzo di aiutare chi soffre e ha il diritto di essere accompagnato, con competenza, solidarietà e soprattutto amore durante tutte le fasi della malattia.
Ricordiamo questa verità centrale della nostra vita: siamo venuti al mondo perché qualcuno ci ha accolti, siamo fatti per l’amore, siamo chiamati alla comunicazione e alla fraternità. Questa dimensione del nostro essere ci sostiene soprattutto nel tempo della malattia e della fragilità, ed è la prima terapia che tutti insieme dobbiamo adottare per guarire le malattie della società in cui viviamo.
A voi, che state vivendo la malattia, passeggera o cronica, vorrei dire non abbiate vergogna del vostro desiderio di vicinanza e di tenerezza, non nascondetelo e non pensate mai di essere un peso per gli altri, la condizione dei malati invita tutti a frenare i ritmi esasperati in cui siamo immersi e a ritrovare se stessi; in questo cambiamento d’epoca che viviamo, specialmente noi cristiani siamo chiamati ad adottare lo sguardo compassionevole di Gesù. Prendiamoci cura di chi soffre ed è solo, magari emarginato e scartato con l’amore vicendevole, che Cristo Signore ci dona nella preghiera, specialmente nelle Eucarestia, curiamo le ferite della solitudine e dell’isolamento. E così cooperiamo a contrastare la cultura dell’individualismo, dell’indifferenza, dello scarto e a far crescere la cultura della tenerezza e della compassione.
Andrea Zilembo, diacono
Pastorale Sanitaria