Da qualche osservatore è stato definito come una sorta di “tagliando” alla democrazia quello che papa Francesco ha fatto con il suo intervento, all’inizio del mese di luglio, partecipando a Trieste all’edizione numero 50 delle Settimane sociali dei cattolici italiani. E probabilmente la definizione iniziale non si discosta molto dal vero e, volendo mantenere il termine di paragone, il pontefice ha circostanziato per bene quello che non va nella “macchina” chiamata democrazia, ma ha anche proposto rimedi e correttivi vari per farla funzionare al meglio, soprattutto con quella necessità di «organizzare la speranza», perché «la democrazia assomigli ad un cuore risanato» che è stato un po’ il cuore di un intervento tanto atteso e che non ha certo deluso le aspettative.
«E’ evidente – ha esordito Bergoglio riprendendo un’affermazione del beato Giuseppe Toniolo – che nel mondo di oggi la democrazia, diciamo la verità, non gode di buona salute. Questo ci interessa e ci preoccupa, perché è in gioco il bene dell’uomo, e niente di ciò che è umano può esserci estraneo. La crisi della democrazia – ha dunque rimarcato papa Francesco – è come un cuore ferito. Ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi. Se la corruzione e l’illegalità mostrano un cuore “infartuato”, devono preoccupare anche le diverse forme di esclusione sociale. Ogni volta che qualcuno è emarginato, tutto il corpo sociale soffre. La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani. Il potere diventa autoreferenziale, incapace di ascolto e di servizio alle persone».
Una grande sete di speranza, come detto, ma anche un leit-motiv che quanti parlano di democrazia non si lasciamo mai sfuggire, anche se poi alle parole – e a questa parola un po’ magica che è “partecipazione” – non sempre seguono i fatti. E riandiamo allora alle affermazioni del pontefice argentino: «La partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va “allenata”, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche. Un politico che non ha il fiuto del popolo è un teorico. È necessario un dialogo fecondo con la comunità civile e con le istituzioni politiche perché, illuminandoci a vicenda e liberandoci dalle scorie dell’ideologia, possiamo avviare una riflessione comune in special modo sui temi legati alla vita umana e alla dignità della persona».
Per i cattolici, in questo ambito così strettamente connesso a quello politico, il connubio con la fede non può e non deve essere un optional, ha lasciato intendere a chiare linee Bergoglio, aggiungendo così nel suo intervento: «Non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto pretendere di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Dobbiamo avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. Dobbiamo essere voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Questo è l’amore politico. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi».
E proprio i cattolici devono sentire il “gioco lieve” di una responsabilità ben precisa: a loro va assegnato un compito precipuo, sono ancora parole del pontefice «il compito di non manipolare la parola democrazia né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e dell’ecologia integrale».
Gli esempi da seguire, i modelli da prendere come punti di riferimento non mancano nel panorama italiano e internazionale. E se Francesco ha richiamato figure di ampio riferimento per un certo cattolicesimo sociale, da La Pira a Dossetti, non di meno ha indicato i fautori di bene anche in altri campi: «Pensiamo a chi ha fatto spazio all’interno di un’attività economica a persone con disabilità; ai lavoratori che hanno rinunciato a un loro diritto per impedire il licenziamento di altri; alle comunità energetiche rinnovabili che promuovono l’ecologia integrale, facendosi carico anche delle famiglie in povertà energetica; agli amministratori che favoriscono la natalità, il lavoro, la scuola, i servizi educativi, le case accessibili, la mobilità per tutti, l’integrazione dei migranti”. Parole, quelle contenute nell’ultima frase, da scolpire e da non lasciar passare come acqua fresca. Così come le indicazioni, le consegne che Bergoglio ha lasciato terminando il suo apprezzato e incisivo intervento in quel di Trieste, con un rimando preciso e ineludibile anche ai prossimi appuntamenti di quella Chiesa italiana e universale nella quale i cattolici non possono non sentirsi parte attiva e non solo partecipe: «Se il processo sinodale ci ha allenati al discernimento comunitario, l’orizzonte del Giubileo ci veda attivi, pellegrini di speranza, per l’Italia di domani. Da discepoli del Risorto, non smettiamo mai di alimentare la fiducia, certi che il tempo è superiore allo spazio e che avviare processi è più saggio di occupare spazi. Questo è il ruolo della Chiesa: coinvolgere nella speranza, perché senza di essa si amministra il presente ma non si costruisce il futuro, Vi auguro di essere artigiani di democrazia e testimoni contagiosi di partecipazione».
E adesso? Dalla città giuliana la gran parte dei delegati alle Settimane sociali è ripartita con un unico, ambizioso ma realizzabile obiettivo: dar seguito alle parole e alle indicazioni del Pontefice e, più in generale, valorizzare quanto di buono è emerso anche dagli altri interventi, da quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella («invito a perseguire il bene, non nell’interesse della maggioranza, ma di tutti e di ciascuno») a quello del presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, che ha invitato a uscire dal “singolare” per parlare piuttosto al “plurale”.
Insomma, è come se la Settimana sociale dei cattolici italiani fosse iniziata una volta… finita quella di Trieste: tanti gruppi parrocchiali, associazioni, movimenti dedicheranno l’estate alla riflessione sui temi emersi. E l’estate è senza dubbio un tempo propizio, ma soprattutto un tempo che poi deve continuare e “regolare il clima” della società italiana.
Igor Traboni