Sono ormai quasi tutti alle nostre spalle i mille eventi (bagordi e sagre compresi, con annessi – purtroppo – incresciosi episodi di inciviltà come quelli perpetrati nei giorni scorsi ai danni della parrocchia di Montecilfone) che, puntualmente, hanno caratterizzato le giornate e le notti non solo ferragostane ma, più in generale, le settimane che dalla fine di luglio sembra che si evidenzino unicamente per quella volontà collettiva di divertirsi “ad ogni costo ed in qualunque modo”, in barba – verrebbe da dire – alla quotidianità della vita che, pur in un contesto di leggerezza e di futilità quale quello appunto delle ferie estive (sempre più definite ormai, anche a livello mediatico, come vacanze: termine che una volta si identificava unicamente con il periodo di riposo dagli impegni essenzialmente scolastici dei nostri ragazzi e di noi docenti, ma che ora viene adoperato indifferentemente per definire il tempo di relax per tutti: politici, attori, professionisti in genere. Pochi forse sanno però che, alla base del sostantivo “vacanza” vi è l’etimo latino vacatio, dall’aggettivo vacuum, che richiama il vuoto o, se si preferisce, la mancanza di qualsiasi interesse verso qualcosa di interessante: tutte prerogative – queste ultime – tipiche per lo più del tempo in questione), continua ad offrire le sue tragiche vicissitudini di violenza, di guerra e di morte a livello globale, ma non solo. In questo clima così spensierato e distratto è passato quasi sotto silenzio sul piano mediatico un importante documento: la lettera con la quale, in una calda domenica di agosto (il 4, per la precisione), papa Francesco ha voluto sancire il valore della letteratura per la formazione. Non solo del clero o delle persone consacrate, come si legge nelle primissime righe del testo, ma di qualsiasi credente. Romanzi e poesie, avverte il Pontefice, non vanno considerati come un passatempo.
Al contrario, costituiscono una particolare forma di discernimento, parola ricorrente, quest’ultima, nel magistero di Bergoglio, che anche nel documento pubblicato giorni fa non rinuncia a sottolineare l’importanza del riferimento ad Ignazio di Loyola, anche attraverso le citazioni tratte dagli studi di diversi confratelli gesuiti, dallo storico francese Michel de Certeau (1925-1986) al nostro giornalista e teologo Antonio Spadaro.
Il richiamo di Francesco va inserito entro un contesto contraddistinto da una crescente urgenza di consapevolezza. Così come è rimasta celebre la distinzione fra “pensanti e non pensanti” suggerita dal cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) – un altro gesuita, e non è un caso – in alternativa a quella fra “credenti e non credenti”, nello scenario attuale si potrebbe azzardare un’ulteriore declinazione, che corrisponde alla capacità o incapacità di pensare in termini spirituali: di nutrire una vita interiore, dunque, quale premessa irrinunciabile a quell’inquietudine che lo stesso Martini considerava inscindibile dalla sequela del Vangelo. A tale riguardo, a far meglio comprendere il senso di queste nostre riflessioni può tornare utile un ragionamento basato su una premessa solo in apparenza fuori da ogni logica.
<<Quantunque>> è, come si sa, dal punto di vista grammaticale una congiunzione avversativa. Ebbene, dal nostro punto di vista, è la congiunzione che meglio di ogni altra sintetizza le caratteristiche della letteratura. La utilizza la protagonista di un film ormai datato (Il mistero di Wetherly, regia di David Hare, 1987) in una circostanza abbastanza memorabile. Coinvolta in un’inquietante indagine poliziesca, la donna si presenta puntuale nella classe in cui insegna letteratura inglese e assegna il seguente compito: <<Merita Shakespeare di essere letto, quantunque egli ci parli solo di sovrani?>>. L’interrogativo, in effetti, potrebbe essere esteso a qualsiasi altro autore e a qualsiasi opera. Perché, ad esempio, leggere Moby Dick, se non si è imbarcati su una baleniera? O ancora: perché interessarsi delle sventure di Edipo, se non si risiede nella greca Tebe? Perché impegnarsi a decifrare Dante e le sue visioni ultramondane, se ancora non si è morti?
Ecco: una buona risposta alla domanda sollevata dalla professoressa cinematografica (per la cronaca, l’attrice era Vanessa Redgrave) è venuta appunto nei giorni scorsi dalla lettera papale sulla formazione del clero, dei consacrati ma – come si diceva – di qualsiasi credente.
Esattamente questo è il “quantunque” della letteratura: la disponibilità a penetrare tanto profondamente in se stessi da scoprirsi disponibili all’incontro con l’altro (e, sì, anche con l’Altro). La letteratura predispone alla comprensione dell’umano in ogni sua sfumatura e lo fa educando all’attenzione (è uno dei passaggi cruciali della lettera del Papa, che non demonizza ovviamente gli audiovisivi né i media digitali, ma nel contempo rivendica l’insostituibile peculiarità della <<lettura profonda>> studiata e teorizzata dalla neuro scienziata statunitense Maryanne Wolf). In questo, e non soltanto in questo, corre un’analogia profonda tra l’esperienza della letteratura e la vita di preghiera, un’analogia ribadita dal fatto che la Bibbia è, in sé, una formidabile collezione di generi letterari, che vanno dall’abbandono lirico del Salterio all’implacabile argomentazione del Qoèlet, dallo scrupolo cronachistico dei libri storici alla meravigliosa libertà di invenzione delle parabole con le quali Gesù di Nazareth si rivolge alla mente, al cuore e alle anime di chi voglia ascoltarlo. Jesus was a sailor, cantava il poeta e compositore canadese Leonard Cohen (1934-2016): era un marinaio, per questo sapeva come salvarci dal naufragio. Ma era anche e specialmente un narratore, per questo non possiamo accontentarci del <<Cristo senza carne>> che Francesco stigmatizza nella sua lettera. Abbiamo bisogno di storie che diano corpo alla realtà, abbiamo bisogno di parole che rendano concreta la storia. Quantunque possa risultare strano, è di letteratura che abbiamo bisogno.
Giuseppe Carozza