Sono tanti i molisani all’estero che hanno contribuito o contribuiscono positivamente alla vita sociale, economica e culturale delle comunità in cui vivono. Un posto preminente lo occupa il prof. Giuseppe d’Andrea. Originario di Roccamandolfi, ha vissuto buona parte della sua vita a Pittsburgh in Pennsilvania.
Il padre Gaetano emigrò da Roccamandolfi a Pittsburgh subito dopo la Prima guerra mondiale. Tornava spesso al paese, dove sposò Candida; nacquero due bambini, Giuseppe e Lucio. Giuseppe dopo un periodo di studio a Genzano, vicino Roma, nel 1943 tornò al Paese in pieno clima di guerra. Fu testimone anche del bombardamento di Roccamandolfi avvenuto il 1° novembre da parte degli inglesi, che provocò morti e feriti. Nel mese di dicembre 1947 Giuseppe, con la madre e il fratello Lucio, s’imbarcò sulla nave Saturnia alla volta di New York per ricongiungersi con il padre. Frequentò la Duquesne University e insegnò la Lingua italiana a Pittsburgh, dove conobbe Gloria Bianchi che sposò nel 1957. Dalla loro unione nacque Anna. Conseguita la laurea all’Università di Pittsburgh, si dedicò completamente all’insegnamento.
Grazie al suo interessamento per i diritti di insegnanti e studenti, fu eletto presidente dell’Associazione educativa della Pensilvania, entrando poi nel comitato direttivo della NEA, National Education Association divenendone il portavoce anche per l’estero. Ovunque andava, soprattutto in Africa, visitava i campi di concentramento dove erano stati rinchiusi i prigionieri italiani, raccogliendo le testimonianze delle opere costruite dai nostri connazionali, quali ponti, strade o cappelle. Il suo spiccato impegno sociale lo portò a far parte di molte associazioni italo-statunitensi. Fu nominato Console onorario d’Italia, un incarico che lo fece conoscere a molti politici e divenne, tra l’altro, amico del senatore John Heinz.
Indubbiamente l’iniziativa che maggiormente lo coinvolse fu la ricerca sulla catastrofe mineraria di Monongah, rimasta nell’oblio per decenni. La tragedia fu riportata in luce da Mimmo Porpiglia, editore del giornale di Miami “Gente d’Italia”, che ne aveva sentito parlare vagamente da un amico giornalista italoamericano. Ricercando, scoprì che si trattava di Monongah, nel West Virginia vicino al fiume Fort York. Giuseppe e Mimmo constatarono in loco che il cimitero era in uno stato di indecoroso abbandono e le erbacce ostruivano l’ingresso della miniera, appartenenuta alla Fairmont Coal Company.
Nella tragedia di quella miniera perirono ufficialmente 362 minatori, ma l’anziano parroco della chiesa locale, padre Briggs, riteneva che i morti fossero oltre 960, cosi come riportato allora dal Consolato d’Italia di New York. Il numero era incerto perché nella miniera lavoravano anche minorenni di 10 anni in su e altri addetti, che non venivano registrati. I morti italiani furono 171 e di essi 87 provenivano da 7 comuni molisani, Duronia, Frosolone, Torella del Sannio, Fossalto, Bagnoli del Trigno, Pietracatella e Vastogirardi. D’Andrea si coinvolse nelle ricerche con infinito amore e passione e si prodigò affinche la Regione Molise nel 2007, a 100 anni dalla disastrosa esplosione, partecipasse alla commemorazione dei caduti e a ripristinare il decoro del cimitero, donando anche una campana della Fonderia Marinelli di Agnone.
I minatori italiani diretti in Virginia pagavano 15 dollari per il viaggio transatlantico, spesso anticipati dalla Compagnia, che poi li tratteneva dalla paga mensile insieme all’affitto delle misere baracche, il vitto e l’abbigliamento minerario acquistato presso il negozio dell’azienda. Il centro minerario era diviso in due zone, una per bianchi ed una per i neri. Gli italiani erano assimilati ai neri.
Le 200 vedove e i 1000 orfani vittime della tragedia non ricevettero alcun compenso perchè la Fairmont Coal Company fu incredibilmente scagionata da ogni responsabilità sull’esplosione della miniera.
Spesso Giuseppe mi ricordava che Van Gogh, che era andato come pastore religioso tra i minatori del Borinage, in Belgio, aveva un profondo legame con quei lavoratori onesti e anni dopo dipinse le loro mogli curve che portavano sulle spalle sacchi di carbone, ed anche il dipinto “Mangiatori di patate”, una famiglia a tavola rischiarata da una luce fioca.
Vincenzo del Riccio