EDITORIALE

URLO O GRIDO?

È la domanda che nasce subito, nel cuore, all’ascolto della storia di Bartimeo, il cieco che incrocia sulla sua strada proprio Gesù di Nazareth, a Gerico.

È un cieco. Tutti lo conoscono. Sta lì a mendicare. A tutti chiede. Ma quel giorno, sentendo passare Gesù, egli grida. Non gli basta chiedere. È un’occasione unica di salvezza. Lui lo intuisce.

La gente, però, lo zittisce, infastidita per tanto chiasso. Ma lui, però, non molla. Anzi. Alza la voce e grida. Ancora più forte. È quasi un urlo (come certe immagini di ‘urlo’ che hanno fatto famoso il Munch delle terre del Nord Europa). Formidabile l’omelia di Papa Francesco, nella messa di chiusura del Sinodo, domenica 27 ottobre 2024. Mi ha colpito un riferimento diretto, quasi autobiografico, quando ha detto (poi ribadito) Io sento passare Gesù, in questo momento storico? Sento questo Gesù che passa tra di noi, ne ascolto i passi e vedo quanto è grande la sua attenzione e la sua premura per noi?”.

E realmente, siamo chiamati a sentire i passi di Gesù, tra di noi, lungo le nostre strade. Incrociamo i nostri problemi quotidiani e oggi, anche noi “gridiamo”. Anzi, talvolta urliamo. Perché sentiamo che è un momento storico di grande forza e provvidenzialità.

La storia odierna, infatti, è un grembo fecondo di vita, che genera una storia nuova.

 

Alcuni segni del passaggio di Gesù

Ecco, perché mi piace, in questo semplice editoriale, tracciare delle soste di Gesù, quando si ferma, ascolta e chiama Bartimeo: “Coraggio, alzati, ti chiama!”.

E il cieco compie subito tre gesti corrispettivi chiari e forti: “E gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. Tre fasi di chiamata e tre modi conseguenti di risposta! Un vero discepolo, come lo sa presentare l’evangelista Marco, lui che, nella foga del vedere ha lasciato il suo lenzuolo candido, per seguire Gesù, in quel giardino che poi, con feconda speranza, fiorirà di vita. (Mc 14,51).

Il primo segno di una sua presenza è proprio questo Sinodo che non vuole “una Chiesa seduta”. Nasce, con esso, uno stile. Perché la sinodalità è un avverbio più che un verbo. Uno stile di fare le cose, insieme, con pazienza, cioè cercando sempre quella armonia delle differenze. È un processo che non è un semplice percorso.

I tavoli nell’aula Paolo VI sono un simbolo di presenza dello Spirito, che parla tutte le lingue e chiede di essere ascoltato. Come hanno fatto i vescovi e i laici in questa sessione mondiale. Uniti nella diversità: perenne tensione, ora ricomposta! Con l’immagine del banchetto, aperto a tutti i popoli! Anche il nostro sinodo diocesano è stato così, perché quei tavoli erano le assemblee parrocchiali e di forania nei vari territori. Anche noi ci siamo messi in reciproco ascolto: del territorio, del cuore, della famiglia, dei giovani, sotto lo sguardo di Maria che ci ha parlato, Vergine Addolorata che ascolta le nostre preghiere, il nostro grido, per evitare che si tramuti in un urlo disperato!

Un altro passo di Gesù, tanto gradito, è stata l’enciclica “Dilexit nos”; la stiamo ancora leggendo, ma intuiamo che è quel ritrovare il cuore per l’uomo e per il mondo! Le due precedenti encicliche sociali di Papa Francesco, “Laudato sì “e “Fratelli tutti” qui hanno la loro sorgente, perché solo se saremo tutti abbeverati a questa fonte, diventeremo automaticamente fratelli e potremo avere rispettosa cura del creato. L’unico rimedio per il dramma della guerra e dell’emigrazione che ci infastidisce è e resta solo l’Amore. Ed anche molti drammi del nostro vivere nelle parrocchie si superano solo così: trovando il cuore del fare e del dire. Riempire di cuore il nostro agire come preti e laici, oggi. Troppe attività risultano spesso sterili, proprio perché sono senza cuore. Non lasciano il segno. Papa Francesco è lucidissimo nel dirci questa amara verità. Il Giubileo sarà un ritrovare “speranza”, perché frutto maturo di quel cuore.

Ci ha dato poi una grande lezione di vita un testimone attualissimo, che è scomparso in questa settimana Sammy Basso, nella sua chiarezza interiore. Non ha vissuto di esteriorità, ma di verità con se stesso e con gli altri. il suo testamento è stato un’omelia, vera e propria, scritta e dettata da lui stesso, quando dice: “Devo tutto a Dio, ogni cosa bella. Non stancatevi di portare la sua Croce”. La stessa morte è stata da lui rivista, quando dice che la morte ci fa sapere che non c’è sempre un domani. E che, se vogliamo fare qualcosa il momento giusto è “ora”! Ed aggiunge: “da cristiano ho affrontato la morte; non volevo morire; non ero pronto per morire, ma ero preparato. Devo infatti tutto a Dio; la fede mi ha accompagnato e non sarei quello che sono, senza la fede”. Ha studiato, con passione, i duri corsi universitari di teologia. Si è laureato, con fatica, ma con tanto frutto, perché voleva capire la sua malattia, la progeria, che lo rendeva quasi un alieno agli occhi degli altri, un eterno bambino ricoperto di rughe, minuscolo. Ma era felice! Felice come chi sa che ha uno scopo da assolvere: insegnare all’umanità smarrita a prendersi cura della fragilità, a farne una risorsa, e non un limite, una leva e non un peso, condividendo percorsi di vita, per costruire relazioni vere in un mondo, finalmente a misura di tutti.

Ed è stato proprio questo il mandato che lui stesso ha consegnato al grande convegno che si è tenuto ad Assisi a metà di ottobre, sul tema della disabilità, intorno ai due punti, ben esaminati nel convegno così riuscito: “l’inclusione e l’accessibilità”. La crescente attenzione a chi soffre è una realtà di verifica del nostro “essere missione”. Facciamo nostre le parole pronunciate dal nostro vescovo Biagio durante il suo commosso ringraziamento, al termine della solenne imposizione del pallio, avvenuta in cattedrale, nella serata del 10 ottobre, alla presenza del Nunzio Apostolico in Italia, mons. Petar Rajič: “Con umiltà io sia sempre alla scuola di Cristo, per imparare a servirvi in un amore costante”. E con la sua stessa fiducia, mentre avvertiamo il passaggio di Gesù nella nostra vita, anche noi teniamo scolpiti quei versetti meravigliosi del profeta Isaia: “Non temere, perché io ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.

Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, poiché io sono il Signore tuo Dio e tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo”.

Sia questa la consolazione del cor inquietum, culmine di tutte le nostre speranze.

+ padre GianCarlo Bregantini, Vescovo emerito