Il mese di ottobre, per una ormai consolidata tradizione, richiama due pilastri della vita ecclesiale e teologale: la devozione alla pratica mariana del Rosario, che vive il suo culmine soprattutto nella recita della Supplica alla Vergine di Pompei nella prima domenica del mese, e la missionarietà della Chiesa, sulla quale in particolare i credenti sono invitati a riflettere in occasione della Giornata missionaria mondiale che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, ricorre puntualmente in una delle ultime domeniche dello stesso mese. Certo, il primo pensiero in occasione di questo periodico appuntamento ecclesiale va ai “missionari” immaginati in senso tradizionale e, per certi aspetti, anche un po’ romantico-avventuroso: a quegli uomini e a quelle donne cioè – religiosi e laici – che, in virtù di una personale predisposizione ma anche in risposta ad una precisa chiamata interiore, mettevano a disposizione la loro vita personale per annunciare la Parola in terre e continenti lontani, andando incontro spesso ad esiti non sempre favorevoli alle aspettative del proprio lavoro. Tanti di loro, infatti, avrebbero testimoniato fino all’estremo sacrificio della propria vita il mandato, ricevuto in patria, di annunciare la “buona notizia” in luoghi tante volte ostili o carichi di pregiudizio nei confronti del messaggio di Cristo. Del resto è utile al riguardo ricordare come, anche da un punto di vista linguistico, nel sostantivo “missionario” vi sia la medesima radice della parola “apostolo”: entrambi i termini infatti, seppure provenienti da ambiti culturali diversi, approdano allo stesso risultato finale. Dal verbo greco apostèllo (= inviare) deriva infatti il sostantivo apostolos (= inviato), come ugualmente dal verbo latino mitto (= invio, mando) scaturiscono sia “missione” (= opera da compiere) sia “missionario” (= la persona inviata, appunto, al compimento di un’opera meritoria).
Ora, è del tutto evidente che nel contesto biblico il compito di “inviati” è essenzialmente quello assegnato ai Dodici perché siano missionari di Cristo e del suo vangelo, secondo il mandato affidato loro dal Maestro durante la sua vita terrena, assieme al conferimento di poteri esorcistici e taumaturgici (Mt 10,1; Lc 9,1-2). I Dodici sono dunque i suoi primi rappresentanti chiamati a “confessare” il suo nome e ad annunciare la “buona notizia” del regno di Dio. Con il tempo però questa singolare vocazione tende a coinvolgere un numero sempre più numeroso di testimoni, fino a diventare un impegno imprescindibile non solo in ambito ecclesiale ma anche in un contesto sociale – come quello attuale – contrassegnato da una secolarizzazione e da un relativismo culturale ormai fuori controllo. Di conseguenza, la chiamata alla missionarietà dovrebbe riguardare non più solo una porzione privilegiata del popolo di Dio, ma tutti i credenti nella loro globalità, senza alcuna distinzione di ruoli e di ceto fra consacrati, ad esempio, e laici.
È in questa chiave di lettura che, a nostro modesto parere, vanno lette le parole scelte da papa Francesco «Andate e invitate al banchetto tutti» per la 98° Giornata missionaria mondiale celebrata il 20 ottobre scorso, terza domenica del mese. Il brano evangelico da cui è tratto il versetto che ha fatto da tema alla Giornata è, come si può facilmente ricordare, la parabola di un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio (cf Mt 22, 1-14). Scrive fra l’altro il Papa: «Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”” (v.9). Riflettendo su questa parola-chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo. “Andate e invitate!”. La missione è un instancabile andare e invitare alla festa del Signore».All’inizio del comando del re ai suoi servi, ci sono i due verbi che esprimono il nucleo della missione: andate e chiamate nel senso di invitate. Il Papa, a ben vedere, ci consegna una visione escatologica del banchetto, ci svela cioè che questo è un pressante invito ad accogliere la salvezza. Il Regno di Dio appare dunque come la mensa imbandita ricca di cibi ricercati alla quale tutti sono invitati. L’invito è per tutti.
La salvezza è per tutti, senza eccezione alcuna. Ci si potrebbe allora domandare: perché gli uomini – uomini reali non semplicemente immaginati (quindi: capi di Stato, benestanti, famiglie, giovani generazioni …) – rifiutano un dono così prezioso? L’abbondanza, la vita piena non è così facilmente riconoscibile.
La vera felicità non corrisponde alle temporanee e volubili gioie umane, ma a quanto di più vantaggioso esista per la nostra vita: «mentre dunque – prosegue Francesco nel suo messaggio – il mondo propone i vari “banchetti” del consumismo, del benessere egoistico, dell’accumulo, dell’individualismo, il Vangelo chiama tutti al banchetto divino dove regnano la gioia, la condivisione, la giustizia, la fraternità, nella comunione con Dio e con gli altri». Il Signore dunque esorta i suoi servi ad andare e invitare. Sono due verbi di movimento, perché la missione non è mai statica. Se Dio, l’Onnipotente, si è addirittura fatto carne per noi, abbassandosi verso di noi, come potrebbe non solo la Chiesa, ma anche i credenti con lei, non andare fino ai confini della terra? Ecco allora che i veri discepoli di Cristo, per andare al cuore del Vangelo, per essere veramente missionari alla sequela dell’unico Maestro, devono essere sempre in uscita. Certo, forse occorre ripensare al concetto di “missione”, in linea magari con le moderne esigenze di relazione fra gli uomini e il loro pensiero. In questa ottica probabilmente non sarebbe da escludere, proprio per rilanciare un nuovo movimento missionario, un ritorno alle origini, là dove tutto è cominciato, un ritorno «agli albori del cristianesimo» (papa Francesco), quando tutto era un fermento, quando i cuori dei fedeli ardevano e la gioia della Buona Notizia entusiasmava l’inizio di ogni giorno. Ecco: in una parola, è fondamentale ridare slancio ed entusiasmo alle nostre comunità ecclesiali e parrocchiali.
Quello slancio ed entusiasmo che sembrano, come inesorabilmente, perduti, convinti che ormai siamo destinati ad essere sempre meno influenti nelle scelte di vita del nostro tempo. In tal senso mai come in questa ora della storia è urgente riscoprire ed accettare in ciascuno di noi la naturale vocazione, propria di ogni cristiano, alla missione, trovando la forza di lasciare le nostre sicurezze per dare la Buona Notizia a chi ne è privo e magari non vive né in Africa né nella Foresta amazzonica, ma semplicemente a pochi metri da noi, forse nello stesso condominio o nello stesso luogo di lavoro.
Giuseppe Carozza