Come è noto, celebriamo quest’anno gli 800 anni del Cantico delle Creature o di Frate Sole, con i cui versi inizia o, per tradizione ormai consolidata a livello critico e storiografico, si fa iniziare la letteratura italiana. Si tratta di un testo per certi aspetti profetico per la cristianità, ma – a ben vedere – fondamentale anche per chi non ha il dono della fede in virtù del suo valore culturale, oltre che religioso e spirituale.
Certamente non possiamo sapere come l’avrebbe presa frate Francesco, che predicava la virtù evangelica della humilitate, se avesse immaginato di trovarsi capostipite di una nascente letteratura, non religiosa, non cristiana, letteratura e basta. Da lungo tempo nessuno ha più dubbi: il Cantico delle Creature è ufficialmente il primo testo poetico della letteratura italiana, senza aggettivi. Gli spetta, per priorità linguistica e dignità letteraria, in ogni antologia un primo posto di fronte al quale san Francesco d’Assisi (1181/1182-1226) si sarebbe magari schermito, non immaginando di aver fondato anche qualcosa di diverso da un ordine religioso, che ha valore anche per chi non ha fede. Del resto, la sua importanza per la cristianità è nota, specialmente ora che quei versi hanno ispirato l’enciclica di un Papa che ha scelto non per caso di portarne il nome. A 800 anni, dunque, da quando fu scritto, un po’ dovunque nel nostro Paese si vanno delineando delle interessanti manifestazioni, a cura sia dei Frati minori sia di vari esponenti della nostra cultura, tese a dare lustro a questo centenario. In tal senso sarebbe auspicabile che anche nella nostra terra molisana, oltre che – ovviamente – all’interno delle comunità cristiane di ciascuna diocesi, si desse il dovuto spazio al ricordo in parola, tenendo oltre tutto presente come il carisma francescano sia da secoli ben presente e insito in tante nostre realtà locali, all’interno delle quali non è raro trovare ancora vivi e vitali conventi capaci di irradiare ancora il chiarore e la testimonianza del Poverello di Assisi.
Ma cosa conferisce al Cantico una posizione così rilevante nel quadro della nostra cultura, non solo di quella letteraria, ma anche di quella pittorica e figurativa in genere? In primo luogo, a nostro modesto parere, il fatto che, come si scriveva già in precedenza, si tratta del primo testo firmato da una personalità che non sia un fantasma, un anonimo. In secondo luogo la consapevolezza che, prima del 1224, abbiamo solo documenti di poesia di occasione di modesto valore espressivo. Indubbiamente, lungo i secoli successivi alla sua composizione, non tutti gli studiosi hanno guardato al testo poetico di Francesco con favore. È il caso, giusto per fare un esempio tra i tanti possibili, del critico letterario Francesco De Sanctis (1817-1883) il quale, da uomo del Risorgimento fortemente laico, faceva invece iniziare la letteratura italiana dal Contrasto del poeta siciliano Cielo d’Alcamo (XIII secolo), testo di poesia amorosa di un giullare di cui si sa poco, perché lo credeva più antico di quanto non sia: in realtà è un testo popolareggiante, di un autore colto che si atteggia. Poi un po’, sempre sulla fortuna del Cantico, ha pesato l’ipoteca di Benedetto Croce (1866-1952), per cui si riteneva che preghiera e poesia dovessero abitare, per così dire, stanze separate e lontane. Ormai però, e per fortuna è il caso di aggiungere, nessuno osa più mettere in discussione il ruolo del Cantico. Intanto per la sua importanza culturale. È il primo salmo in volgare (nel senso cioè di lingua italiana delle origini, discesa dal latino e già comunque distinta da esso): il figlio di Pietro di Bernardone introduce nella liturgia la lingua umile, viva, parlata, in pratica quello che farà il fiorentino Dante, ma con mezzo secolo di anticipo. Lo fa con un testo di grande qualità espressiva, molto superiore, almeno per la sensibilità moderna, al modello cui si rifaceva, cioè i Salmi di Davide e il 148 in particolare (che di Davide, in realtà, non è perché posteriore di almeno cinque secoli). La scelta del volgare è, d’altro canto, scelta di umiltà: c’è nel testo un tragitto dal sublime all’umile che è sì formale, ma anche di significato: si comincia – com’è noto – con la parola Altissimo e si finisce con il latineggiante humilitate, umiltà. Francesco parte dagli astri e arriva al basso, ma offre del mondo una visione più sintetica rispetto al citato Salmo 148 (<<Alleluia. / Lodate il Signore dai cieli, / lodatelo nell’alto dei cieli. / Lodatelo, voi tutte, sue schiere. / Lodatelo, sole e luna, / lodatelo, voi tutte, fulgide stelle …>>). Ha come riferimento le cosiddette laudationes dei salmi dell’Antico Testamento, ma le Beatitudini rimandano al Nuovo: nei salmi non c’è mai la lode della sofferenza. Francesco canta la lode a Dio per la creazione: tanto più toccante perché sa che il mondo non è eterno, ma transeunte come la vita umana, che tuttavia prepara a una bellezza ulteriore.
Un ulteriore elemento di interesse che ci trasmette il nostro testo è costituito dalla sua lingua. Si tratta di un volgare a base umbra, ma nel manoscritto più antico, quello di Assisi, che è di circa 80 anni posteriore alla composizione, il Cantico è un’isola in volgare circondata da un mare di latino.
Per questo è da ritenere che il copista, abituato a copiare il latino, che a volte scrive con altre cum, scrivendo abbia vestito il testo di forme latineggianti. Se noi lo depuriamo delle forme grafiche, che con ogni probabilità chi lo cantava non pronunciava, lo capiamo ancora quasi senza spiegazione, il che ha del miracoloso dopo otto secoli. In tale ottica è lecito, pertanto, chiedersi: chi sono i destinatari di questi mirabili versi? Nell’immediato i confratelli, poi gli uomini di ogni tempo: lo si coglie dalla lode a sorella morte, livellatrice e dunque affratellatrice dell’umanità.
Siamo davvero di fronte ad un testo profetico, che arriva lontano con la profondità, ma anche la bellezza conta: Francesco loda non solo il Dio buono, ma anche il Dio “artista” che ha fatto le stelle pretiose, clarite e belle.
Non era scontato nel Medioevo, in cui ebbe enorme fortuna il De contemptu mundi, trattato sul disprezzo del mondo e sulla miseria umana, scritto da Lotario Diacono prima di diventare, con il nome di Innocenzo III, il Papa che conferma la Regola francescana approvata da Onorio III.
Giuseppe Carozza