“Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre… Come cantare i canti del Signore in terra straniera?” (Sal 137,1-4).
Il salmista descrive con toni drammatici lo stato d’animo degli esiliati in terra babilonese, ai quali veniva chiesto sarcasticamente di cantare i canti di Sion. Come avrebbero potuto intonare inni di lode a Dio dopo la distruzione del tempio? Gli ebrei erano lontani da casa, dagli affetti, avevano perso tutto ciò che li legava alla loro identità.
La desolazione che si prova nel tempo dell’esilio è un’esperienza che lega tutti gli uomini. Dove trovare la gioia quando mutano le condizioni che garantiscono il regolare svolgimento delle nostre giornate? Come essere gioiosi quando vediamo che tutto passa e arriviamo a temere per la vita delle persone a noi più care?
Le letture e i canti della liturgia del tempo pasquale risultano quasi provocatori: sono continui gli inviti alla lode e alla gioia e più di un credente, che non li voglia ignorare, non può non avvertire una certa distanza con la realtà che stiamo vivendo. La pandemia ha reso la testimonianza della gioia cristiana più difficile, quasi fuori luogo per alcuni.
Questo momento storico ci sollecita dunque a riflettere su un aspetto forse sottovalutato della vita cristiana: la gioia. Questa non è collocabile tra gli optional della testimonianza credente, né possiamo semplicemente ritenerla una dote di natura. La gioia cristiana è questione di sostanza.
“Essere allegri è un fatto esterno, rumoroso, e presto si dissolve. La gioia invece vive nell’intimo, silente, è profondamente radicata. Essa è la sorella della serietà: dove è l’una è anche l’altra.” Romano Guardini |
Al centro del Vangelo c’è il mistero pasquale che è al tempo stesso mistero della glorificazione di Dio e mistero della nostra gioia. Tutte le nostre tristezze sono entrate nel mondo dal momento in cui l’uomo ha attentato alla gloria di Dio. Gesù Cristo è venuto in questo mondo di peccato, quindi di sofferenza, diventando partecipe del nostro patire, ma tutto questo non per subire la tristezza di ogni colpa, ma per affrancare gli uomini da questo patire. È venuto sì per noi, ma anche per il Padre suo, per rendergli la gloria che gli uomini gli avevano contestato. Li ha redenti dando a Dio ciò che spetta a Dio e da questo è di nuovo scaturita per ogni uomo la sorgente della gioia.
Per questo motivo la gloria di Dio e la gioia vanno di pari passo (Mt 6,33): “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. La gioia non la si cerca in sé stessa, ma la si trova come dono inaspettato, come conseguenza gratuita dell’aver trovato il vero tesoro, Dio.
Non è solo un dono, ma anche qualcosa che s’impara. Bisogna ricordarsi che la gioia non è uno stato d’animo che non si governa, un sentimento irresponsabile. Non è vero che non dipende da noi essere gioiosi o tristi: decidersi per la gioia è la condizione di partenza per imparare a gioire. La gioia è una virtù cristiana nel senso forte della parola. Dimenticandoci di considerarla come tale facciamo dipendere la gioia da motivi effimeri: “mi è andato bene un esame… mi hanno riconosciuto un merito”. Motivi legittimi che costituiscono anch’essi delle gioie, ma un’autentica trasfigurazione della gioia avviene attraverso una nostra purificazione. In fondo il segreto della virtù cristiana della gioia consiste nel dare più importanza alle cose che fa Dio che alle cose che fanno gli uomini.
Portiamo la nostra attenzione alla creazione e alla sua infinita bellezza: tutto è stato fatto solo per noi uomini. Dio ci ha plasmato a sua immagine e somiglianza, ci ha vivificati con la vita della sua vita, stretti al suo cuore come figli. Siamo nati per la gioia. Il cristiano non ha solo il diritto di godere delle cose belle che il Signore ha fatto, non già nel senso di un uso indiscriminato, ma ha anche il dovere di goderne perché questo dà gloria a Dio che le ha create.
Finanche l’esistenza del peccato non è una ragione valida perché si debba rinunciare alla gioia, perché qualsiasi cosa abbiano fatto gli uomini resta pur sempre meno importante di quello che ha fatto Dio. È proprio qui che comprendiamo come la gioia diventi una virtù.
Anche il mio tradimento non obbliga Dio ad abbandonarmi perché Cristo risorto mi rimane sempre fedele.
Il “tempo d’esilio” che stiamo vivendo, in cui siamo privati a volte anche delle gioie più lecite ci offre l’opportunità per spostare il nostro sguardo da noi stessi a Dio, per vedere alla luce della Pasqua quello che Dio continua a fare intorno a noi. Solo in questo modo anche la morte degli uomini, con il loro spirito che non passa, non muore, può significare per noi un avanzare verso la Vita, verso la gioia che non ha fine.
Gregory Pavone