La scissione, il taglio netto con il passato fatto dall’attuale sistema, porta la “politica” – tutta nelle mani della finanza (banche e multinazionali) – a non comprendere il presente e, così, a non avere gli elementi necessari per progettare il futuro. Porta, anche e soprattutto, a non capire il territorio, il suo significato di bene comune, nel momento in cui questa sua fondamentale prerogativa è stata, di fatto, sacrificata alla privatizzazione di ogni bene. In pratica cancellata, e, con essa, i suoi valori, le sue risorse, ovvero le preziosità di un tesoro distrutto dalla voracità del sistema. Una “politica” senza più protagonisti, animata solo da comparse, che si ritrovano sul palcoscenico, posizionate chi a sinistra, chi al centro e chi a destra. Come un gregge che si muove da una parte all’altra lungo l’antico tratturo, con tante pecore alla ricerca dell’erba, che diventa difficile da distinguere l’una dalle altre.
Comparse che, ben posizionate sul palcoscenico della quotidianità, hanno smesso di: identificarsi con il luogo; guardare l’orizzonte; ammirare e, così, emozionarsi di fronte alla bellezza del paesaggio, nelle sue più disparate forme; avere chiaro il senso della realtà, ovvero il presente quale continuità con il passato che apre al futuro. Non sono più credibili, anche quando sono applauditi da masse di ultras che hanno un solo bisogno: quello di sfogare la carica di violenza accumulata per colpa di un sistema che allarga sempre più la forbice delle disuguaglianze e vuole lo svuotamento del cervello e dell’anima di ognuno, tanto da pensare e programmare la sostituzione dell’essere umano con un robot.
L’obiettivo è quello di volerci rendere sempre più numeri di algoritmi di intelligenza artificiale, utili, appunto, al sistema che, non avendo il senso del limite e del finito, procederà fino alla distruzione di quel poco che ancora la nostra madre terra ha. Ecco che, per il non senso della territorialità e il suo modo di essere e di fare, il neoliberismo predatorio e distruttivo, imploderà e, così, finirà. Tutto questo succederà dopo che il genere umano verrà privato di valori, sogni, radici, identità; di possibilità di governare il cambiamento, in mancanza di politica e dei suoi strumenti, i partiti; di possibilità, anche, di poter godere il cibo, frutto del terreno e della sapienza di milioni di donne e di uomini.
Un processo che, da qualche decennio, è già cominciato proprio con il furto di territorio e la marginalizzazione dell’agricoltura e delle sue risorse, trovando, nel consumismo spietato e nella globalizzazione, quell’accelerazione che ha portato il clima alla situazione di malato cronico che vive oggi. E, non solo, che ha allargato sempre più la forbice delle disuguaglianze e messo in crisi la sostenibilità. Clima, disuguaglianze e non sostenibilità, le tre pandemie che hanno preceduto quella prodotta dal Covid-19, ancora oggi sottovalutate, tutte opera del sistema che ha eletto, come suo dio onnipotente, il denaro. Pandemie, sempre più difficile da curare, nel momento in cui il sistema, malato di profitto, non ha, nel suo modo di essere e di pensare, il concetto della prevenzione e della moderazione, la voglia di correggersi e di cambiare. In pratica – da quello che è dato vedere – non gliene importa niente delle conseguenze, che si tratti della distruzione della foresta dell’Amazzonia o dell’Africa; dell’Oceano con la plastica galleggiante e le acque inquinate; dei ghiacciai che si sciolgono, o, anche, della perdita della biodiversità. Non gliene importa niente, visto il furto di territorio e, con l’agricoltura industrializzata, il furto, anche, della fertilità dei suoli di un globo popolato – alla fine dei prossimi trent’anni – da dieci miliardi di persone, che vuol dire dieci miliardi di bocche da sfamare.
Un insieme di azioni scellerate di un sistema appunto, che ci rende tutti complici con i suoi strumenti di informazione/persuasione. Un esempio è la televisione e i programmi che parlano del cibo.
Una gara continua e tante parole per spiegare i caratteri organolettici di un ingrediente, le procedure di preparazione di questo o quel piatto. Nessuno odore, profumo o aroma, e, peggio ancora, nessuna possibilità di provare, degustare, assaporare. Niente “acquolina in bocca”, tutto resta dentro il cavo elettrico che trasmette l’immagine e i suoni. Trasmissioni che diventano proposte, stimoli a consumare quello che le cattedrali di questo tempo, i centri commerciali, hanno da smerciare, e, subito dopo, da buttare. Parlando di cibo il pensiero va a tutto quello (circa la metà) che non siamo riusciti a utilizzare e a mangiare. Un altro esempio è la chiusura non solo delle botteghe commerciali, ma, anche, di quelle artigiane, che, nel passato hanno contribuito non poco allo sviluppo dell’arte, e, alla nascita e crescita delle civiltà del Mediterraneo.
Un’economia circolare che dava la possibilità di provvedere al recupero di un oggetto e, così, evitare cumuli di macerie e, con esse, l’apertura di nuove cave, altre miniere. Quest’immagine, per niente bella, del sistema che governa il mondo, il neoliberismo, è la rappresentazione della follia dello spreco, insieme, dei valori e delle risorse che la natura ha messo a disposizione di tutti gli esseri viventi, con noi, donne e uomini, che, guidati dal dio denaro, abbiamo perso il senso della realtà e non riusciamo a renderci consapevoli del futuro prossimo, che ci spetta di vivere.
Ancor più dell’eredità che lasciamo alle generazioni di oggi e di domani, nel momento in cui, con la mancanza delle materie prime e le crisi dei trasporti, il mito della globalizzazione crollerà e il neoliberismo, una volta annullata la politica, imploderà.
Pasquale di Lena