Esiste nella nostra città di Campobasso una importante comunità rom che per nostra fortuna e per una lungimirante operazione di alcuni decenni fa dispone di una serena collocazione in una nota area urbana. Non assistiamo dunque ai tristi fenomeni registrati in altre realtà nazionali, vuoi di rifiuto vuoi di patologico disordine sociale, anche se da noi non risultano del tutto scomparsi episodi di comportamento non rispettoso del normale vivere civile, come furti o altre manifestazioni attribuibili a soggetti appartenenti a quell’insediamento.
Comunque è avviato ormai da tempo un processo di sostanziale integrazione, come testimoniato dai dati di iscrizione e frequenza nelle scuole del capoluogo. Una conferma di questa circostanza era anche nel liceo Galanti in cui insegnavo letteratura italiana e circa venti anni fa una illuminata docente di psicologia e pedagogia condusse un valido esperimento di inserimento dei rom nel tessuto non solo didattico ma più autenticamente sociale. Si trattò di una serie di interviste con testimonianze raccolte nella comunità rom grazie alla mediazione di alcune alunne dell’istituto di quella provenienza e alla collaborazione di altri docenti. Tra questi io, che, essendo impegnato in attività teatrali, inserii un paio di queste documentazioni nei miei testi per la recitazione di fine anno.
Una di queste testimonianze, rivolta a comprendere meglio la diversa idealità dei rom, fu la citazione di una poesia della stessa etnia dedicata alla madre, inserita in DOMINA, lavoro dedicato nel 2004 alla figura della donna nella tradizione europea:
SEMSO, Madre zingara
Madre, tu risvegli
il mio cuore assopito,
tu sei la mia ispirazione,
so con quanta fatica
e con quante preoccupazioni mi allevi.
Molte volte ti addormenti
con la fame
per aver saziato me.
Amo te
più di chiunque altro.
E’ più facile per le mamme gagè
allevare i loro figli
nelle case riscaldate.
Ma tu, madre, accendi il fuoco,
mi fasci e mi copri
con la giacca di papà
e mi proteggi con la tua gonna.
La mia mamma zingara
è la migliore di tutte le mamme.
Due anni dopo, ancora in un lavoro teatrale da me preparato per il liceo Galanti, DOUBLE, che immaginava il difficile inserimento di un ragazzo di origine nordafricana nel nostro contesto, feci comparire il personaggio di Cinzia, una ragazza rom che rivendicava il diritto ad essere ascoltata e compresa:
CINZIA – Mi chiamo Cinzia. Sono una zingara, una rumnayà, come diciamo noi. Ho la gonna lunga, ma sono una come voi, vado in chiesa, la mattina presto, quando non ci siete voi; facciamo i battesimi, facciamo i funerali ai morti come voi, solo che noi abbiamo la banda e, se possiamo, attraversiamo le strade del centro, perché tutti devono salutare il morto, e facciamo cadere i fiori della corona sul percorso, come se i fiori lo accompagnassero fino alla fine.
Anch’io ho messo il vestito bianco da sposa, ma è stata bella la festa di fidanzamento…una serenata tutta la notte dai parenti del mio ragazzo e poi la mattina una stretta di mano al bar tra suo padre e mio padre. Se non erano d’accordo, facevamo la fuga; i suoi fratelli organizzavano tutto. Il fidanzamento è durato un anno, ci vedevamo poco, non come voi, qualche carezza, qualche bacio di fretta e tutto il resto rimandato al matrimonio.
Leggo la mano, sì, ma non ci credo io per prima, è solo per avere dei soldi. L’ho fatto anche da bambina, ma solo d’estate, perché d’inverno ho frequentato la scuola, come voi. E lavoro, di taglio e cucito, non cerco l’elemosina, lo fanno solo le più anziane.
Stiamo cambiando, abbiamo solo le gonne lunghe e poi siamo come voi, con meno libertà di voi. Non andiamo a ballare, gli uomini sì; non usciamo la sera, gli uomini sì; non possiamo sposare un civile, gli uomini una donna civile sì; se rimaniamo vedove, portiamo il lutto, cinque anni.
Mi piace l’oro, con le pietre rosse, i coralli. Sono contenta? Nasco così e vivo così, che devo fare?
Più specificamente sottolineo che Double era la storia dell’amore tra una giovane europea e un suo coetaneo extracomunitario, che doveva fare i conti con i contrapposti pregiudizi delle famiglie di appartenenza. Questi diversi modi di vedere la realtà venivano superati attraverso il confronto pilotato dagli stessi protagonisti nei rispettivi nuclei familiari. E il pretesto per collocare la figura di Cinzia veniva offerto, nella mia stesura, da un locale in cui i giovani frequentatori di un’accademia teatrale organizzavano di sera spettacoli di cabaret ispirati appunto al tema dell’integrazione.
E’ forse utile ricordare che l’idea di questa rappresentazione si fece strada nella mia mente osservando il difficile ma in fondo sereno inserimento di un ragazzo di origine marocchina nel nostro istituto, che interpretò praticamente se stesso con il proprio nome nei panni del giovane innamorato della storia.
Da allora sono passati 15 anni e spero che la situazione sia ancora migliorata. Forse è inutile aggiungere che quelle riportate sono le migliori soluzioni per comporre le differenze etniche e culturali attraverso il confronto. Soluzioni che però devono partire da una disinteressata intermediazione. Sia di monito per l’attuale conflitto in Ucraina.
Roberto Sacchetti