Che pena vedere ancora l’Europa divisa dopo settecento anni! E nessuno che si impegni per la pace! Anche ai miei tempi si pensava di risolvere le controversie con le armi e in pochi abbiamo cercato di imporre le ragioni del dialogo. Io in particolare ho pagato per questa mia ostinazione ad essere sempre in equilibrio tra i contendenti. Mi hanno cacciato dalla mia Firenze perché non sopportavo che una parte prevalesse con ogni mezzo sull’altra. Ho cercato di dare l’esempio punendo sia i miei avversari che i miei alleati, tra cui il mio migliore amico, quando avrei potuto approfittare del mio priorato per prendermi ogni soddisfazione.
Vedo invece che la necessità di prevalere pregiudica la salute di un popolo e trascina a orribili violenze sulle persone e sulla verità pur di avere ragione degli avversari. Il conte Ugolino era l’emblema di una crudele vendetta, Farinata degli Uberti un esempio opposto di rispetto del nemico e amor di patria su tutto. Vedo, come nella mia città, scatenarsi gli istinti fratricidi di chi prima si sentiva parte di un solo popolo. Vedo una richiesta insistente di armi anziché il tentativo di comporre le fazioni. Vedo soccombere quella pace per cui mi sono sempre battuto.
Nella Monarchia avevo sognato un mondo armonizzato dalle leggi e dal loro rispetto con la garanzia di un imperatore (come nel passato Giustiniano, nel mio tempo Arrigo VII, nel vostro l’ONU. Una felicità terrena presupposto per quella celeste promessa dalla guida del pontefice. Avevo infatti descritto nel canto di Ciacco le conseguenze delle divisioni, in una città non più capace di organizzare banchetti in un’atmosfera serena e gioiosa. E con l’incontro del mio avo Cacciaguida nel Paradiso avevo comunque individuato nella semplicità dei rapporti i motivi per cui la vita della Firenze di decenni prima procedesse senza sussulti. La verità era per questo univoca, non intorbidata da reconditi propositi o manovre.
Con l’allegoria della lupa avevo messo in guardia dalla peggiore tentazione, l’avidità, che pone i rapporti fra gli uomini al di sotto del denaro e li spinge a comportamenti non solo ingiusti ma addirittura devastanti, come dimostrava la vicenda di Pier delle Vigne, accusato di aver tradito l’imperatore da chi aveva solo invidia del suo ruolo e mirava a sostituirlo. In una visione totale, avevo affermato in questo e altri episodi che la verità è sempre il primo valore. Tanto più se la si nega per avviare una guerra.
Soprattutto, concludendo la mia opera, avevo sognato di vedere nella rivelazione finale di Dio ai miei occhi l’immagine stessa dell’uomo, ma quello giusto e in pace con se stesso e con gli altri che dovrebbe essere. Erano i giorni in cui ancora divorava la mia tranquillità l’idea che i miei concittadini mi avessero proposto il ritorno in patria a patto che riconoscessi colpe che non avevo, come scrissi in risposta all’amico fiorentino.
Dunque lottate per quella pace che mi ha sempre ispirato soprattutto nel mio ingiusto e doloroso esilio.
Caro Alighieri, la tua vita e la tua opera dovrebbero essere incitamento a che proprio lo stato che hai onorato di una gloria mondiale non avesse remore a distinguersi da tutti gli altri per un’azione rivolta alla pace, senza alcuna concessione all’idea che le vicende umane possano comporsi con le armi. Che forniscano strumenti di distruzione gli altri, i paesi senza la nostra storia e le nostre passioni, abituati a imporre con la forza un modello per altro offuscato da immani errori trascorsi, attraverso una sequela di incredibili e sciagurati spropositi, dalla bomba atomica all’Afghanistan.
L’altro tuo ammonimento sulla verità deve indurci a porre al di sopra di tutte le versioni delle parti in conflitto quell’idea che comunque smentisce ogni argomentazione precostituita, l’oggettivo bisogno di felicità degli individui. E’ un criterio che tutta la tua opera ci suggerisce: dubitare di chi combatte a favore di una tesi per imporla agli altri e aver fiducia soltanto della disinteressata trepidazione per l’umanità.
Roberto Sacchetti