Si può comprendere che la crisi economica e le grandi crisi strutturali, mettano in crisi ogni modello di inserimento dei migranti nel mercato del lavoro e nel tessuto sociale dei Paesi in cui approdano. Italia e Spagna, punti di approdo dal nord Africa, hanno vissuto e stanno vivendo queste problematiche da diverso tempo.
È stato notato che il mercato del lavoro per i migranti in Italia e in Spagna ha delle peculiarità che non si riscontrano altrove: se per i migranti il rischio di rimanere disoccupati è relativamente basso, trattandosi di lavori generalmente assai poco qualificati, tuttavia proprio per questa ragione i migranti corrono un rischio piuttosto alto di essere “segregati” in quei lavori, essendo loro preclusa ogni possibilità di riqualificazione e soprattutto di stabilità sociale. Ciò indipendentemente dai problemi “etnici” o, diciamo pure, “razziali” che quei migranti si trovano a dover vivere quotidianamente.
L’Italia, Paese mediterraneo come la Spagna, non è estranea al flusso migratorio proveniente dall’Africa. Ma fin dall’inizio degli anni ’90 abbiamo iniziato a definire questi flussi di migranti e di richiedenti asilo come una «crisi migratoria» pericolosa per la nostra prosperità e per la nostra identità nazionale. Forse siamo stati una società sì accogliente ma non inclusiva; il che ci ha impedito anche di accorgerci di quelle che sono state definite le «nuove minoranze visibili»: comunità ormai stabili di figli di migranti, nati in Italia.
Il fatto poi che l’Europa, allargandosi, abbia mutuato cospicue dosi di nazionalismo dai Paesi dell’ex patto di Varsavia, unitamente all’esistenza di “confini liquidi” nel Mar Mediterraneo, ha portato a importanti mutamenti. Da un lato, le tradizionali «identità monoculturali» sono cambiate; da un altro si sono sviluppati comportamenti di intolleranza nella gestione del fenomeno migratorio, e soprattutto di fronte alla diversità.
Ciò detto, perché tolleriamo un tipo di accoglienza che in molti casi non soddisfa (lo si deve pur dire) i requisiti minimi di civiltà? Innanzitutto, perché l’immigrazione è facilmente associata all’illegalità: intesa sia come attraversamento di un confine senza il possesso dei necessari requisiti; sia come lavoro nero che si aggiunge alla condizione di clandestinità. Da qui le crescenti richieste di rafforzamento delle politiche di controllo dell’immigrazione; e ciò noi facciamo al contempo tollerando le più svariate forme di economia sommersa derivante da manodopera non qualificata: Proprio grazie a ciò è possibile eludere perfino le regole più basilari della sicurezza sociale e sanitaria, oltre che quelle finanziarie.
Il Mediterraneo ha sempre unito le sue diverse sponde. Gli archivi vaticani conservano i trattati medievali con cui pontefici, dogi, capitani del popolo e principi arabi si alleavano nella repressione della guerra corsara e della pirateria. Come il Mediterraneo abbia unito, in un’epoca come il Medioevo considerata “buia”, rotte e civiltà diverse è sotto gli occhi della Storia. Sono nate rotte commerciali tra la Francia, la penisola italiana, l’Algeria, la Tunisia e il Marocco. Grazie a queste rotte è nato il progresso economico e industriale. Ma, è stato giustamente osservato, da fonte d’ordine e di controllo geopolitico ora il Mediterraneo è diventato «fonte di anarchia e di caos», e luogo di una frontiera liquida impossibile da chiudere. Una situazione di cui siamo tutti responsabili.
C’è da fare una constatazione geopolitica: l’immigrazione dal nord Africa in Europa significa pur sempre immigrazione in Unione Europea. Quali sono le esperienze degli immigrati che arrivano in Italia, ma non restano in Italia? Quale vita viene loro offerta altrove? Quali prospettive trovano questi migranti, specialmente se non appoggiati da un nucleo familiare già radicato nel territorio d’ingresso? È chiaro che le esperienze migratorie, in questo caso, sono mutevoli: in parte perché gli Stati membri dell’Unione Europea non hanno un’unica politica sul tema dell’immigrazione; come non hanno un’unica politica di welfare europeo. Come armonizzare le differenze? Come «sostenere la promozione di atteggiamenti più positivi nei confronti della diversità» e prevenire le discriminazioni? Come avviare un dibattito sulla cittadinanza europea di quegli immigrati che poi si stabiliscono regolarmente sul territorio dell’Unione Europea?
Dobbiamo inoltre fare una banale constatazione: non tutti i migranti che partono dalle rive nordafricane sono nati in Paesi mediterranei. Molti arrivano da lontano dopo viaggi inenarrabili. Il che spiega come la locuzione «aiutarli a casa loro» non soddisfi la logica: nessuna «casa» sarebbe raggiungibile nelle zone a nord e a sud del Sahara o nella regione del Sahel. Caduta la logica dell’aiuto agli africani in casa loro (ma dov’è la “casa”?), non resta che creare frontiere sicure e impenetrabili con il sud del mondo; e naturalmente criminalizzare il fenomeno migratorio nei Paesi di transito o di stabilimento. E’ una soluzione?
Per lo spazio di un articolo, riflettiamo su un ultimo aspetto. Un’importante società di sondaggi italiana ha stabilito che nell’arco dei prossimi vent’anni la popolazione subirà un tasso d’invecchiamento accelerato a cui l’attuale spesa previdenziale non potrà far fronte, data la scarsità del numero di giovani in età da lavoro. Pur volendo incrementare qui e subito le politiche di natalità, occorrerà almeno un ventennio per far sì che esse creino una generazione di giovani lavoratori in grado di pagare le pensioni ai vecchi. Nel frattempo, come colmare questa lacuna, se non con provvedimenti di regolarizzazione e con politiche di inserimento e di integrazione degli immigrati?
Sono queste le sfide che attendono il terzo millennio. Con l’aggravante che il terzo millennio è ormai iniziato da oltre vent’anni.
Matteo Luigi Napolitano