LA GESTIONE AUTONOMA DELLE REGIONI

AUTONOMIA DIFFERENZIATA, MEZZOGIORNO E COESIONE NAZIONALE

Il duro scontro tra Giorgia Meloni e Vincenzo De Luca ha dimostrato ancora una volta quanto l’autonomia differenziata sia tra i temi più divisivi nel nostro Paese. De Luca si è messo alla guida dei sindaci del Mezzogiorno, scelta istituzionalmente inappuntabile, perché l’autonomia disegnata dal Governo non può funzionare e pone la domanda se serve davvero al paese o è soltanto una bandiera strappata dalla Lega per la campagna elettorale verso le prossime elezioni europee.

Autonomia differenziata e federalismo fiscale sono tornati nell’ultimo anno con forza all’attenzione del legislatore. La prima è vocata all’attuazione dell’articolo 116, co. 3 nella versione introdotta dalla riforma del titolo V della Costituzione (legge n. 3/2001), che non ha, fino ad ora, trovato completa attuazione. Il federalismo fiscale, invece, trae origine dalla Legge delega n. 42/2009 che, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, come riformato nel 2001, doveva garantire l’autonomia di entrata e di spesa per i comuni, le province, le città metropolitane e le Regioni. Fino ad allora, infatti, l’autonomia finanziaria degli enti locali era congelata dall’interpretazione restrittiva che la Corte Costituzionale forniva alla nozione di “tributo proprio”.

Al legislatore era stato affidato poi il compito, per la loro attuazione, di definire i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), ovvero la soglia di spesa occorrente per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché «il nucleo invalicabile di garanzie minime» per rendere effettivi tali diritti. I ritardi del legislatore nel percorso di attuazione della legge n. 42/2009, e quindi nell’individuazione dei LEP, hanno creato forti criticità, biasimate per altro dalla Corte costituzionale e rimarcati dal rapporto del Servizio studi della Camera sul federalismo fiscale (9 settembre 2022).

In tale contesto, e siamo all’oggi, s’inserisce il Ddl Calderoli approvato in prima lettura dal Senato il 23 gennaio scorso, finalizzato a disciplinare la prassi di attribuzione e finanziamento delle funzioni  pubbliche aggiuntive richieste dalle singole Regioni a statuto ordinario, come previsto dall’articolo 116, terzo comma della Costituzione. Ora il testo è alla Camera, dove presumibilmente sarà licenziato prima delle elezioni europee. In tal caso, le Regioni che lo vorranno potranno inoltrare domanda al Governo per attribuirsi nuove funzioni, limitatamente alle materie meno sensibili sul piano dei diritti civili e sociali, ovvero quelle non classificabili nei livelli essenziali delle prestazioni rilevanti. Tra di esse – le cosiddette “materie non-LEP” – si contemplano settori di intervento pubblico basilari come la previdenza complementare e integrativa, la protezione civile, la coordinazione della finanza pubblica e del sistema tributario, ecc. 

Per le altre funzioni pubbliche decentrabili, quelle di maggiore peso in termini di diritti e portata finanziaria – ad esempio l’istruzione, la tutela dell’ambiente, le grandi reti di trasporto … – le Regioni dovranno attendere che il Governo, a tutela della solidarietà nazionale, stabilisca i relativi LEP e stimi le risorse occorrenti per assicurarli nei territori regionali, secondo un processo che si dovrebbe concludere – dopo il rinvio introdotto dal decreto Milleproroghe – entro la fine del 2024.

Questi ultimi aspetti, che paventano rischi di sostenibilità finanziaria a livello nazionale e aumento delle disuguaglianze territoriali consolidate nel tempo, hanno rinfocolato il dibattito polarizzato da anni tra favorevoli e contrari. Poniamo il caso di una Regione che richieda la gestione autonoma del proprio sistema sanitario, come farebbe a sostenerne i costi, basterebbe la trattenuta di una parte della fiscalità statale che viene maturata sul territorio della Regione stessa? E come funzionerebbe nel caso di “malattie rare” che per la fragilità del paziente necessitano della presa in carico e assistenza specifica su tutto il territorio nazionale?

È evidente che entrano in gioco aspetti nodali come il divario Nord-Sud e il livello di redistribuzione tra territori: il PIL pro capite a Sud è circa la metà di quello del Nord, il reddito pro capite della Regione italiana più ricca è quasi il doppio di quella più povera, la sproporzione tra Nord e Sud con il tasso di occupazione, il divario della povertà delle famiglie, la percentuale di asili nido sul territorio, e via dicendo.

È evidente, per come è concepita la legge, che la definizione delle risorse finanziarie, e non solo, da attribuire alle Regioni differenziate darà adito ad una serie di estenuanti mediazioni tra una molteplicità di commissioni, paritetiche, tripartitiche e quant’altro. Tutto ciò mentre l’Europa e il mondo stanno vivendo una tremenda crisi di nervi, che richiederebbe ben altre visioni anche come coesione nazionale.

In Svizzera, paese tra i più ricchi al mondo, il federalismo – costruito dal basso e per aggregazioni successive di Cantoni – costituisce uno degli assi portanti dell’equità e della coesione nazionale, che trae alimento dal meccanismo di perequazione il cui principio basilare è il sostegno dei Cantoni più deboli, attraverso il trasferimento a questi di risorse da parte della Confederazione e dei Cantoni più forti. E nella Camera alta (Consiglio degli Stati), il Cantone più piccolo, 83 volte meno popoloso del più grande, possiede sul piano del voto lo stesso peso di quest’ultimo. Vi è, dunque, una potente leva di riequilibrio del peso decisionale dei membri più piccoli della Confederazione rispetto ai più grandi.

Franco Narducci